Dicembre 1, 2020
Un cammino lungo la psicoterapia, la scrittura poetica e la musica. Una storia nel segno della conoscenza, la conoscenza degli e per gli altri, dalla psichiatria, alla progettualità della scuola, epicentro della formazione culturale. E così dalla cultura verso la comprensione dei popoli, quello armeno in particolare, alle forme d’arte, in particolare il teatro e la musica, linguaggio universale, emozione condivisa, terapia dell’anima. E’ complicato raccontare Federica Mormando pensando a una categoria, troppo riduttivo.
Molto si capisce dalla sua storia che le abbiamo chiesto di raccontarci.
“Mi è difficile tracciare un c urriculum perché nel corso della vita non ho preso nota delle tante cose fatte, come si deve fare per stilare un profilo completo. Si dice che i creativi “vanno avanti”… Quindi posso raccontare solo quello che ricordo”. Ha iniziato così, ma i ricordi sono molti e ognuno apre un capitolo. Dopo il liceo classico, quando si imponeva la scelta di facoltà, indecisa tra fisica, filosofia, medicina, si decise per quest’ultima perché, ha confessato, “mi pareva vicina alla vita vera più delle altre due facoltà. Volevo capire il sì e il no alla vita. Volevo conoscere la mente umana”.
Segue psichiatria, soprattutto, psicoterapia, iscrivendosi all’albo degli psicoterapeuti adleriani. Una scelta non casuale: “la scuola adleriana, ci ha raccontato, è estremamente concreta, attenta a tutto ciò che costituisce la vita, in ogni età, sensibile anche all’aspetto didattico, all’influenza della scuola, oltre a svelare ciò che si può dell’inonscio e a rendere più liberi di scegliere la vita migliore per noi.”
A questo ambito si avvicina non digiuna. E’ figlia d’arte, padre pedagogo, zia assistente di Maria Montessori. Cresciuta in mezzo al materiale montessoriano, consegue il diploma per l’insegnamento montessoriano.
Nel 1976 apre uno studio professionale al quale per molti anni hanno collaborato artisti, esperti di educazione corporea, oltre a insegnanti di varie specialità. “Tutte attività, precisa, che non sostituiscono la psicoterapia, ma che vi si possono, talora devono affiancare, aprendo possibilità di conoscenza, di pensiero, anche di lavoro, a persone che di questi stimoli e incoraggiamenti hanno bisogno”.
In realtà cos’è per lei la psicoterapia?
“Il termine ha un’accezione molto vasta ma per me è la via, senza impiego farmacologico, per aumentare i gradi di libertà e di gioia. E’ molto importante rendersi conto del sé, delle proprie potenzialità ed eventuali talenti che spesso non si sa di possedere come anche conoscere dimensioni nuove della vita. Purtroppo soprattutto le donne crescono con obiettivi bassi e non solo professionalmente. Per questo credo che la formazione della mente e la didattica siano fondamentali e a tutte le età.”
All’inizio nel grande studio c’era anche quello che oggi chiameremmo, ma con nome improprio, day hospital. Alcuni ragazzi psicotici infatti vi passavano tutto il pomeriggio o addirittura la giornata, impegnati in diverse attività, con persone capaci di interpretare gesti o parole significative, per aumentarne la consapevolezza dei propri significati o semplicemente per trasmettere loro il concetto che tutto ha un significato.
Li ricorda come anni sereni, “utili, di lavoro estremo ed entusiasta. Su tutto vigilava la mitica Tina, una signora di incredibile sensibilità che oltre ad occuparsi di fatturazioni ed appuntamenti vigilava senza perdersi nulla di quello che accadeva nella varie stanze, eccettuata quella della psicoterapia. Nel 1983 lo studio si trasferisce in Via Spiga, sopra al ristorante Alfio e con i camerieri facevo a gara a chi chiudeva più tardi alla sera.”
Un giorno accade qualcosa. “Stanca di vedermi portare bambini sospettati o diagnosticati di vari disturbi, da quelli di apprendimento a quelli di personalità, e che risultavano ad altissimo potenziale intellettivo, decisi di aprire una scuola per loro. Era a scuola infatti che si manifestavano i loro problemi.”
Nacque così, nel 1984, la scuola “Emilio Trabucchi”, dal nome del luminare di farmacologia che, poco prima di morire, le aveva detto:” La farà, la farà grande, la farà bella”.
Purtroppo nel 1993 è costretta chiuderla: le spese erano troppo rispetto alle entrate e non volendo ridurne le attività e lo stile, non c’era alternativa. Una nostalgia si profila nella voce quando in particolare dice “Ricordo l’atmosfera lieta e ordinata, le faccine dei bimbi, i sorrisi degli insegnanti. Ricordo una bimba, ora scrittrice, che a quattro anni voleva a tutti i costi entrare nei gruppi di quelli che scrivevano e leggevano, e tanto insistette che ce la fece.” Contemporaneamente apre la casa psicoterapica residenziale “I delfini”, a Vernate, in provincia di Milano, modello Bettelheim. Enzo Romagnoli aveva dato cascina e capitale, Federica ci mette opera e conduzione. Lì arrivano ospitato molti bambini e ragazzi fra i più gravi in Italia. Purtroppo I Delfini furono osteggiati dalla società. Nel 1993 un’altra chiusura, non perché la struttura non funzionasse bene, ma perché gli ostacoli esterni erano insormontabili.
“Ci rimase un grande dispiacere: avevamo promesso ai ragazzi una protezione fino a che fossero in grado di partecipare alla vita “normale” della gente, e li abbiamo involontariamente dovuti tradire. Per me, fu una grande esperienza di come vanno le cose e le persone. Tra i pochi collaboratori rimasti fedeli fino alla fine, ricordo il dottor Primino Botta, medico illuminato di perenne disponibilità e grande competenza.
I media di allora, televisioni e giornali, avevano dato grandissima rilevanza alla casa di psicoterapia e soprattutto, alla scuola. Parlare di iperdotazione intellettiva a quei tempi era piuttosto rivoluzionario. L’egualitarismo era sostituito alla pari opportunità, la massificazione era all’opera, nelle scuole come dovunque. Non era facile spiegare gli svantaggi e le ingiustizie collegate a voler dare a tutti gli stessi programmi, le stesse nozioni, non già le stesse opportunità. Non era facile mostrare l’isolamento inevitabile degli allievi ad alto potenziale, l’incomprensione nociva da parte della maggioranza degli insegnanti, il danno psicologico e culturale che si andava facendo agli allievi più intelligenti.” Questo temi li ha raccolti in un libro, edito dalla Erickson,Altissimo potenziale intellettivo, strategie didattico-educative.La battaglia è ardua, impegnarsi alla divulgazione di quanto riguarda il 3% di allievi con capacità estremamente superiori a quelle della media. “Volevo portare la consapevolezza della loro esistenza e delle loro caratteristiche nelle scuole, magari al Ministero.”
Questo binario si intreccia con altre collaborazioni in tema di cultura e di costume, per decenni ad esempio ha collaborato con quasi tutti i quotidiani nazionali e con molti periodici, italiani e ticinesi; per la TV italiana, per le reti nazionali, per Mediaset, Antenna tre, Telenova, oltre che per la Radio e Televisione Svizzera.
Come si traccia il percorso dalla didattica all’attività culturale? In modo lineare?
“In realtà intorno ai tre anni e mezzo esiste già lo stile di vita di una persona. Io vivevo reclusa in una casa del dopoguerra con un grande cortile e buttavo dalla finestra i miei giocattoli, felice che i bambini potessero giocare grazie a me e mi è rimasta questa voglia di aumentare la felicità altrui, di favorire il nascere di amicizie.”
Passione o anche un obiettivo? “A umentare i gradi di libertà e le possibilità di gioia. Erano anni in cui si divulgava l’esistenza della depressione e si esaltava l’effetto di alcuni farmaci; così ho organizzato un convegno su educazione alla gioia,consapevole dell’educazione alla depressione che da molto molto tempo ci viene ammannita soprattutto dai media.”
Alla chiusura della scuola, su sollecitazione di Jean Brunault, fonda, tra l’altro, l’associazione Eurotalent Italia, e diviene vicepresidente dell’ONG Eurotalent, carica che conserva fino alle dimissioni, nel 2017. Per due decenni fa parte alle Commissioni Cultura ed educazione del Consiglio d’Europa e della Commissione prevenzione e salute, occupandosi a lungo di iperdotazione. Fonda quindi l’OING Human Ingenium, che si affianca a Eurotalent Italia, dedicata anche ai talenti degli adulti e a quelli non misurabili.
La professione di psicoterapeuta resta il binario principale anche se cresce nel tempo la consapevolezza che l’ampliamento delle conoscenze culturali ed artistiche migliorano i risultati dell’attività di terapeuta.
Dai pazienti sono nate conoscenze culturali?
“Direi di no e quegli anni mi hanno lasciato poco spazio per coltivare la dimensione culturale perché lavoravo 15 ore al giorno, con pazienti di tutte le età. Andare a teatro ad esempio era complicatissimo. Per fortuna frequentando molto i ragazzi ho imparato molto sul contemporaneo ricevendo un ampio spaccato sociologico più che culturale.”
Per alcuni anni insegna varie discipline come E ducazione al pensiero creativo alla SUPSI di Lugano eS crittura creativaalla facoltà di design di Bolzano (LUB) e a scienze della formazione all’Università di Bressanone e insieme crescono le attività culturali.
È diventata protagonista della cultura?
“Non è nella mia natura essere protagonista; purtroppo non sono abbastanza ambiziosa. In realtà spesso è noioso partecipare ad eventi. Per me la cultura è soprattutto ricerca, curiosità verso quello che non so. In tal senso è stata molto stimolante la collaborazione con il Corriere della Sera del Trentino, non perché scrivevo ma per le persone che incontravo nelle interviste. Ho scoperto così la cultura ladina che mi ha affascinata e poi quella armena.”
Un capitolo a parte riguarda proprio la Casa Armena di Milano (HY DUN) che racconta così: ho contattato la casa armena, in particolare la musicista Ani Martirosyan, per confezionare il mio primo spettacolo, L’andar dei popoli, il viaggio vissuto da alcuni popoli, interpretato dalle loro musiche. Non l’ho più lasciata. La cultura è soprattutto l’empatia di un incontro, il viaggio con l’altro. Non so dire perché mi sento molto affine con il popolo armeno, ma è così. Mi emoziona e quando sento parlare del loro genocidio piango.”
Alla Casa Armena ha presentato alcuni spettacoli, fra cui La storia dell’Armenia tratteggiata da musiche e poesie.
Ma Federica non si ferma nel suo viaggio in direzioni diverse e pubblica, nel 2019, Frutti di sole frutti di re, poesie dedicate all’Armenia, tradotte in armeno da Ani Martirosyan.
Quando è arrivata la scrittura e in particolare la scrittura poetica?
“In realtà c’è da sempre, come un’urgenza, almeno così lo era quando ero piccola, malgrado l’ostilità di mia madre…per ogni mio successo”.
Adesso cosa rappresenta per lei il linguaggio poetico?
“Un modo di sublimare scelte emotive o storiche, un modo di espressione che nasce spontaneo; solo qualche volta come nel testo dedicato all’Armenia volontariamente.”
Con la convinzione che i doni possono diventar talenti anche quando si è adulti e addirittura anziani, studia la fisarmonica diatonica – è al V anno della scuola Glasbena Matiça di Trieste – e compone musica.
La passione per la musica quando nasce?
“All’età di sette anni quando sono stata due mesi dalla zia a Parma e per due mesi ho suonato il pianoforte con soddisfazione e successo tanto che il mio insegnante aveva voluto farmi ascoltare dal direttore del conservatorio. Ma ogni ambizione fu troncata subito da mia madre che mi proibì di suonare. Questo divieto interiore ha fatto sì che per molto tempo non potessi neppure ascoltare la musica. Tardi ho poi ricominciato con strumenti che ritenevo minori come la fisarmonica proprio perché i no interiori diventano un potente ostacolo.”
Cos’è la musica per lei?
“Una dimensione, un linguaggio; vivere nella musica è vivere altrove”.
È più vicina alla psicoterapia o alla cultura?
“Può diventare cultura ed essere funzionale nella psicoterapia utilizzandone una parte. Per me non rappresenta un modo per arrivare ad una migliore comprensione di sé ma una migliore espressione.”
Recentemente è uscito il Cd, prodotto da Classicaviva, VAI QUI, solo improvvisazioni perché allora ero incapace di correggere e mi facevo scrivere gli spartiti, lo stesso titolo dell’ultimo libro di poesie, edito da Kimerik; con lo stesso editore ha pubblicato Le catene delle stelle, la psichiatria in versi, dall’esperienza con gli psicotici. Tra l’altro ha vinto alcuni premi di poesia quali Lerici Peia Carpena opera prima, Abano, Il Carro delle Muse, Abano per medici scrittori.
Le sorprese non finiscono qui e ci racconta che da poco è entrata nel suo studio una Autoharp, uno degli strumenti magici, fra le cui corde vive la storia dei popoli.
Lasciandoci con ironia ci dice che nella sua vita è entrato lo studio del russo. “Forse fra qualche anno riuscirò a dire qualche frase. E’ una lingua che ancora non ho capito ma mi affascina perché una lingua è l’anima di un popolo. Per questo è un peccato che le persone non conoscano più l’italiano e lo si capisce dal fatto che le persone non sanno usare i toni della voce che rappresentano la punteggiatura.”
a cura di Ilaria Guidantoni – tratto da bebeez.it